crowdfundig

Archivi Tag

Londra capitale del crowdfunding. L’Italia cresce, ma non troppo.

In Italia il crowdfunding cresce ma non troppo. Certamente una causa la si può trovare nel ritardo digitale che ci affligge e, anche nella mancanza di una mentalità sharing che all’estero fa già parte di un comportamento acquisito. I dati sono comunque confortanti e, così come stiamo imparando a condividere la casa, l’auto e la barca, presto impareremo che, se condividiamo i nostri sogni e progetti con le altre persone possiamo realmente arrivare a finanziarli.

Stiamo attraversando il guado e la dimostrazione è il successo di alcune campagne e la crescita di alcune  piattaforme. Il fatturato da noi non raggiunge nemmeno lontanamente i 590 milioni di dollari raccolti da Kickstarter nel 2016 . I 3 milioni di euro delle nostre piattaforme top sono ancora poca cosa ma il segnale che il cambiamento è in corso è piuttosto forte.  I dati pubblicati dal “The crowdfunding Center” intitolato “2016: State of the Crowdfunding Nation” evidenziano  una crescita del crowdfunding di tipo reward (a ricompensa) i tutti i paesi di lingua inglese, Londra in testa davanti ai colossi americani Kickstarter e Indiegogo.

crowdfunding-support

Grandissimi esperti di crowdfunding come Daryl Hatton, fondatore di Fundrazr e Sponsifi, definiscono questa crescita esponenziale del crowdfunding come “disruptive” indicando che questa specifica innovazione ha già  un impatto enorme sulla società e che la sua costante ascesa sta cambiando radicalmente i modelli di finanziamento. Non è un caso che i progetti più finanziati siano quelli di tipo tecnologico.

La campagna per il “Peeble” ha raccolto 20 milioni di dollari superando il 4.000% dell’obiettivo di raccolta. Anche la campagna per “Exploding Kittens”” ha raccolto  8,8 milioni di dollari con più di 219.000 finanziatori. Entrambe erano di tipo reward ed entrambe le campagne hanno evitato al progettista il passaggio iniziale di seed da Angel Investor o Venture Capital. Tutti noi startuppati sappiamo bene la fatica di cercare fondi per la propria impresa.

peebles

Una campagna di crowdfunding  offre un finanziamento senza pitch,  business plan,  executive summary. e altre amenità.  Oltretutto, per una start up o un’azienda, poter testare subito il gradimento del prodotto è  un enorme passo che va oltre  i metodi tradizionali di finanziamento.

Il  crowdfunding sta generando  un impatto economico importante che non è ancora possibile calcolare.

Per una PMI o una Start Up ottenere un’iniezione di denaro liquido in una fase in cui il proprio  fatturato non risulta ancora appetibile è  un grandissimo aiuto.

Crowdfunding-Short

 

In Italia la situazione per i progetti culturali è differente. Le classifiche inglesi danno in crescita cinema, musica, arte, editoria, teatro.

Da noi i  progettisti culturali non possono ancora pensare di raccogliere cifre così importanti. Quello che suggeriamo sin dai primi approcci è  di attivarsi per costruire attorno a sé una solida rete di sostegno e mettere a punto strumenti di comunicazione e relazionali utili per poter effettuare una raccolta fondi dal basso.

Un dato che mi ha incuriosita leggendo il report, è l’aumento sensibile delle campagne con contratto “fisso” rispetto a quelle con contratto “flessibile”. Penso  che ogni progetto sia diverso e, prima di scegliere un contratto oppure un altro, ritengo  necessario effettuare un’analisi realistica di contenuti, obiettivi, proponente e progetto. Solo in un secondo momento si decide quale tipo di contratto sottoscrivere.

Quello che rimane leggendo questo genere di report, è la grande soddisfazione di aver scelto anni fa una strada di cambiamento che ha e avrà un impatto sempre più forte sulla società. A prescindere dalla politica e dalla crisi economica.  Anzi, più ci sarà crisi e più il crowdfunding potrà radicarsi come forma abituale di comportamento.

In Italia, la nostra creatività innata ha fatto sì che il crowdfunding in stia  prendendo forme diverse, ibride. Da noi  è possibile realizzare campagne dotate di grant,

Seguo con una certa inquietudine la strada intrapresa da  alcune  Fondazioni bancarie:  l’erogazione del contributo è condizionata al raggiungimento dell’obiettivo . Una sorta di carota per ottenere più soldi.  Bene? Male? Non so. Pensavo che le fondazioni bancarie fossero enti erogativi.

Credo che una campagna di crowdfunding debba  partire da una scelta, non da un obbligo o dalla necessità di incassare denaro.  Che si regga su valori umani di condivisione e amore.

Chi si occupa di politica e di economia non credo possa comprendere  questo tipo di  visione.

LADRODIIDEE

Un assessore  che decide di costruire un portale di crowdfunding per la cultura coadiuvato da una fondazione bancaria non ha compreso  quale è il suo ruolo.  Il rischio, è quello di rovinare un settore  che si basa  su valori come la fiducia e la trasparenza.

Emanuela Negro-Ferrero – www.innamoratidellacultura.it

Il governo italiano, unico e primo in tutto il mondo, ha deciso di legiferare sulla sharing economy. Teniamoci forte ragazzi.

La strada da percorrere si spera sia ancora lunga. Come parte in causa, auspico che il governo italiano, specializzato in bisticci grotteschi su qualsiasi argomento, si prenda il giusto tempo per

a) mettere a fuoco che cosa è esattamente il fenomeno definito come “sharing economy”

b) realizzi che mettere un freno ad un comparto che sta dando, e ha già dato, lavoro a migliaia di persone che attualmente si trovano senza lavoro proprio grazie all’insipienza del governo stesso, non attrae il consenso popolare. Anzi.
In qualità di gestore di una piattaforma di crowdfunding, ho festeggiato insieme a molti colleghi la recente notizia dello “sblocco” del crowdfunding di tipo equity da parte della Consob. Alleluia. L’ente, quando ancora nessuno in Italia sapeva nemmeno cosa fosse l’equity crowdfunding, ha prudentemente e italianamente deciso di “ingessarlo” con norme e regole favorevoli solo al mondo bancario con il risultato che, se nell’intero pianeta il crowdfunding di tipo “equity” è esploso, da noi no. Complimenti al genio. Spero  che non succeda lo stesso con questa idea di regolamentare la sharing economy ma i presupposti non fanno pensare bene. Mi sembra di capire che il punto nodale per il governo italiano, desideroso di tassare chiunque e qualsiasi cosa, sia quello stabilire la differenza fra sistemi che si fondano sull’idea di condivisione di beni e servizi rispetto a forme di business vere e proprie,

gnammo

 

Il “Sharing Economy Act” è una proposta di legge presentata nei giorni scorsi da un gruppo di parlamentari appartenenti all’Intergruppo “Innovazione” . Lo scopo è quello di «disciplinare le piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi» e di «promuovere l’economia della condivisione». Sulla carta sembra tutto chiaro. Nutro però il terribile sospetto che questo gruppo di volenterosi paladini governativi non abbia la minima nozione del’argomento. Disquisire di “sharing economy”, cioè di “economia collaborativa” tanto per usare l’italiano e farsi capire da tutti, non è cosa affatto semplice né risolvibile in quattro e quattro otto.
Il principio che governa la “sharing economy “ è la condivisione di beni e di servizi con alla base una logica di scambio e condivisione fra le persone. Tutti noi conosciamo e amiamo BlaBlaCar che ci consente di condividere i nostri viaggi con altre persone che, oltre ad aiutarci a sostenere i costi della trasferta ci offrono la possibilità di viaggiare in compagnia e di ridurre il quantitativo di veicoli in circolazione. La piattaforma Zoopa ci permette di generare video, campagne virali, loghi grazie a un sistema di “crowdsourcing” grazie cioè ad una rete di professionisti che mettono la loro professionalità a disposizione ad un prezzo più basso e con un’offerta creativa decisamente più alta. Ci sono poi i progetti open source come, per esempio, WordPress dove moltitudini di sviluppatori mettono le loro conoscenze al servizio della comunità. Ma un piattaforma open source è ben diversa da un’esperienza di car, food o house sharing . L’indagine IPSOSdel 2014, difatti, ha evidenziato come l’adesione all’economia collaborativa non ruoti esclusivamente attorno a motivazioni individuali – come i possibili benefici economici, ma anche al desiderio di contribuire ai bisogni della propria collettività di appartenenza, una forma di adesione a un sistema valoriale condiviso.
uber-drivers-present-petition-to-transport-for-london-502235562-569cb9fcb4e34

In questo senso moltissimo è stato fatto in diversi ambiti: i FabLab sono laboratori aperti alla produzione collaborativa attrezzati con macchinari e strumenti come stampanti 3D dove chiunque può andare ad auto fabbricare qualunque cosa . Nei cowoorking viene condiviso lo spazio di lavoro e le persone possono aggregare competenze diverse senza essere collegate da vicoli contrattuali.
Ma la collaborazione attiene anche all’ambito del consumo, grazie allo sviluppo di piattaforme e realtà innovative che hanno applicato i principi peer-to-peer a sistemi tradizionali come il baratto, la donazione o lo scambio. Pensate alle piattaforme di crowdfunding, di social eating, di co-housing.
Il punto comune per qualsiasi settore collaborativo -e che sta alla base di tutti questi sistemi – si fonda su di un principio ben preciso che è quello del trasferimento di qualcosa. Questo trasferimento può essere inteso come una forma di scambio o condivisione: ho un’idea, un abito, una casa, un’auto, una barca, un talento e lo metto in comune o lo scambio un’altra persona oppure lo cambio con un altro bene e servizio.
Ci sono poi delle forme di sharing economy dove la collaborazione è un modo per definire nuove forme di mercato che tendono a riprodurre relazioni non necessariamente dissimili da quelle dei mercati tradizionali. Mi riferisco ad aziende che, a fronte di un costo di transazione, mettono in contatto la persona che ha una risorsa (una casa, per esempio ) con un’altra persona che non ce l’ha. Questo tipo di condivisione genera dei profitti (Uber, tanto per intendersi) e si basa sul principio di utilizzo in condivisione di qualcosa che già si possiede, senza quindi una produzione di beni o di servizi. In questo caso la collaborazione si basa sull’accesso alla proprietà e non ha niente a che vedere con lo scambio. Siti come HomeExchange mettono in comune un bene senza che ci sia la possibilità da parte di qualcuno di trarre guadagno da questo scambio.

sharing economy

Il punto che confonde i parlamentari del gruppo “Innovazione “, nei confronti di aziende come, per esempio,  “Gnammo” è: organizzare un pasto in casa propria con altri utenti chiedendo in cambio un rimborso sui costi sostenuti è un modo per socializzare oppure è un modo pratico per farsi un vero e proprio ristorante in casa guadagnando? E chi guadagna è un libero professionista o è un dipendente? Bei quesiti davvero.
Per  realtà come AirBnb e Uber si può parlare di economia dello scambio mascherata però da sharing economy.
Queste aziende americane non solo fanno enormi fatturati, ma stanno creando una nuova economia di lavoratori “a rimborso spese” che non sono regolamentati né tassati e lavorano senza alcuna copertura assicurativa e, spauracchio italiano, senza tutela da parte dei sindacati. Ed è qui che il gruppo di parlamentari del gruppo “innovazione” ha deciso di andare a legiferare.
Personalmente penso che la sharing economy non vada fermata ma, al contrario implementata con una chiara suddivisione fra la rental economy mascherata da “economia collaborativa” e la autentica “sharing economy”. La proposta di legge del 2 marzo scorso prevede che un utente che arrotonda i suoi introiti affittando stanze, organizzando cene oppure offrendo passaggi con la sua automobile debba pagare una imposta del 10% se i suoi guadagni non superano la cifra dei 10 mila euro all’anno. Superata tale cifra, gli introiti verranno considerati redditi veri e propri e andranno sommati agli altri redditi percepiti. Questo significa che aziende come AirBnb dovranno devono aprire una sede in Italia e comunicare i dati all’Agenzia delle Entrate sulle transazioni economiche tra i propri utenti e che queste transazioni , d’ora in poi, potranno avvenire solamente per vie elettroniche. Ecco qua servito il solito vespaio all’italiana. La proposta avanzata dai nostri prodi parlamentari non spiega perché si debba applicare la medesima aliquota per un passaggio offerto con BlaBlaCar oppure per l’ affitto di una stanza su AirBnb. Anche se i costi di gestione dei beni possano essere molto simili – l’usura della macchina in un caso, le spese vive nel caso dell’affitto di una stanza (tasse, pulizia, manutenzione) –si tratta di due realtà con finalità profondamente diverse. BlaBlaCar è un sistema di trasferimento della proprietà su un bene limitato – io ti offro un passaggio, tu mi rimborsi le spese. AirBnb, invece, è un sistema di accesso alla proprietà che funziona come un vero e proprio contratto di affitto. E’ evidente che gli utenti di BlaBlarCar avrebbero poca convenienza ad usare la piattaforma e quindi il guadagno aggiuntivo e relativo mercato verrebbe affossato.Sto già battendo le mani. La legge infatti propone di istituire un modello fiscale centralizzato per le multinazionali . Questo rischia di apparire deleterio nel caso di servizi online decentralizzati che nascono dal basso e si fondano sui principi dell’economia collaborativa. E proprio il caso di dire, mamma mia!

sharing-economy-cover1-620x350

La legge inoltre, pur preoccupandosi di tassare i lavoratori freelance che superano certe soglie di reddito ponendo come discrimine i redditi superiori ai 10 mila euro, non indica nulla relativamente ai temi previdenziali o dei diritti di questi lavoratori. Intanto , come si legge sul Manifesto, i quarantasette pilastri dell’economia collaborativa e della condivisione, Uber e Airbnb in testa, hanno scritto una lettera al presidente dell’Unione Europea per sottolinere la loro contrarietà a qualsiasi legge che limiti l’economia collaborativa. Staremo a vedere ma, se l’obiettivo è solo quello di tassare e tartassare, suggerisco ai nostri parlamentari del gruppo “Innovazione” un giretto nel floridissimo mercato dei portali di gioco d’azzardo e pornografia. Tutti rigorosamente con sede all’estero. Tutti esentasse. Due pesi e due misure? Un esempio di perfetto italian style. Quello che tutto il mondo ci invidia?

Emanuela Negro-Ferrero –ceo – www.innamoratidellacultura.it

Non rubare. Benigni fa sorridere ma la verità, amara, è attuale e duole.

Ieri sera, come milioni di italiani, ho ascoltato il meraviglioso ed arguto monologo di Roberto Benigni sui dieci comandamenti. Come tutti, ho riso quando il comico toscano ha detto ironicamente che Dio, “non rubare” l’ha scritto in italiano.

Ieri sera, come milioni di italiani, anche noi abbiamo  ascoltato il meraviglioso ed arguto monologo di Roberto Benigni sui “Dieci comandamenti”. Come tutti, abbiamo riso a crepapelle quando il comico toscano ha detto ironicamente che Dio, “non rubare” l’ha scritto in italiano. Ha ragione Benigni. Tutti, stando a quanto si legge sui giornali,  in Italia rubano. C’è chi ruba la benzina taroccando la pompa. Chi ruba allo Stato evitando di emettere lo scontrino. Chi ruba sul lavoro, facendosi  assumere con una raccomandazione e svolge senza possedere competenza né conoscenza una delle migliaia di mansioni –inutili-  di qualche ufficio pubblico. Ci sono i gestori telefonici che rubano scatti e secondi, i politici che rubano importi da capogiro e non vengono mai puniti. Accade solo in Italia? Pare. Vicino al Natale si dovrebbe essere più buoni. Il crowdfunding è un modo per dimostrare la propria capacità di amare. Di donare per il gusto di vedere fatte le cose. Nel caso di progetti culturali, si dona per il piacere di regalare bellezza e armonia.
Buon Natale, fate una donazione su www.innamoratidellacultura.it

Redazione – www.innamoratidellacultura.it